Tratto dal libro “Oltre la rete”, a cura di Serenella Pesarin (Direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari presso il Dipartimento di Giustizia Minorile) e Raffaele Bracalenti, psicoanalista, presidente dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali , Edizioni Edup, marzo 2009
Questa è la mia storia, ho 47 anni, sono venuto in Italia 28 anni fa come clandestino. Uno straniero, una persona non di cittadinanza italiana. Se però provate a chiedermi di quale Paese sono originario, a quale nazionalità appartengo, vi risponderò che è troppo difficile per me poter dire: “Io sono croato, sebo o macedone”. E’ una storia complicata, una storia che accomuna tutti coloro che vengono dalla ex-Jugoslavia e, in particolare, gli zingari. Mia madre è una gagè (una ‘non-zingara’), una bosniaca cattolica, mentre mio padre è uno zingaro di religione ortodossa. I miei nonni materni sono uno zingaro e una bosniaca musulmana, quelli paterni un ortodosso e una cattolica. A ripercorrere tutto il mio albero genealogico, si rischia di perdersi. E io chi sono? Io sono solo un mezzo zingaro, un meticcio, un miscuglio, sono come il ‘pesto’. Da ragazzo ho vissuto in Slovenia, vicino Vinkovci, nella casa dei nonni: adesso è territorio serbo, ma quando ci abitavo io era zona croata, e ho avuto anche modo di giraare un pò per il paese; poi la decisione di andare in Italia in cerca di fortuna. Era il 17 gennaio 1980: un giorno dopo il mio diciannovesimo compleanno. Un bel modo di festeggiare! Non sono venuto con una carretta del mare: ho attraversato la frontiera a piedi, attraverso i boschi. Da Capo d’Istria ho raggiunto Trieste e da lì, in treno, sono arrivato a Roma. Per quasi sette mesi ho dormito nei treni o nelle stazioni della metropolitana, quasi sempre da solo, senza alcun punto di riferimento nella città. L’inserimento è stato molto lento e faticoso, finchè non ho iniziato a lavorare come restauratore di mobili presso un vecchio artigiano dei Parioli, che però morì solo qualche mese dopo. Per alcuni anni ho continuato a tirare avanti tra un lavoretto e l’altro. Non rubavo all’inizio, ma poi, quando non hai la possibilità di lavorare, di sopravvivere, non hai niente..devi per forza cominciare, e sono stato anche incarcerato. All’inizio degli anni Novanta sono rientrato in Jugoslavia per i fatti della guerra. Da che parte? Non importa più ormai, è storia passata. Comunque, mi sono fatto cinque anni di guerra. Poi, quando ho capito che ra una guerra inutile, che si moriva solo per avere due o tre metri quadrati di terra in più, che tutto sarebbe rimasto come prima, ho deciso di tornare in Italia. Così ho ripreso quella vita di espedienti e piccoli lavoretti.
Poi ho cominciato a stringere i rapporti con gli zingari di Roma e nona vendo la casa avevo deciso di trasferirmi nel campo Casilino 700. “Mi sono subito reso contyo dlele condizioni in cui vivono gli zingari in Italia e ho detto ragazzi svegliamoci, non si può viver così, dobbiamo fare qualcosa!”. Così ho iniziato a impegnarmi nell’associazionismo: facevo parte della A.R.G. ( Amicizia tra Rom e Gagé) ma non avevamo una sede ed era difficili trovare appoggi per le nostre iniziative. Comunque facevamo quel che potevamo, e per un bel pò ho tirato avanti. Finchè un bel giorno, nel 2000, mi hanno preso e mi hanno portato al Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria vicino Roma. Ricordo un impiegato che mi diceva: “Tu devi essere espulso, devi andare via, devi tornare al tuo Paese!” e io: “Scusa, se mi sai dire qual’è il mio paese, io ci torno volentieri!”. Il mio Paese, in realtà, non esiste più: prima si chiamava Jugoslavia, ora si chiama Croazia, Macedoonia, Montenegro…
E’ difficile dirlo esattamente quante persone eravamo all’interno del campo. C’era un continuo via vai; in media direi circa 80-90 persone, quando più, quando meno. Gli uomini dormivano da una parte, le donne e i bambini dall’altra. All’internod el centro operavano diversi corpi dello Stato: Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, e a fianco delle forze dell’ordine operava anche un gruppo di volontari della Croce Rossa Italiana. Proprio tra questi volontari ho conosciuto quella che sarebbe diventata la mia compagna. Le giornate nel centro trascorrevano senza uno scopo apparente. Ogni tanto, due o tre immigrati, quelli dalla situazione giuridica più complessa, venivano portati presso diverse ambasciate, per capire in quale paese avrebbero dovuto essere rimpatriati. Io, lo zingaro jugoslavo, dovevo peregrinare per tutte le sedi diplomatiche dei paesi balcanici: Macedonia, Croazia, Bosnia, Romania..Da ogni parte dicevano: ” No, questo non è nostro, non possiamo riprendercelo noi!”. Un girono, per sbaglio, mi hanno portato pure in quella di Algeria, insieme ad un ragazzo nordafricano! Al campo ho conosciuto anche un mio compaesano, trasportatod a Rimini a Ponte Galeria, per essere espatriato. Dopo qualche giorno, viene messo sull’aereo e portato a Sarajevo. A quanto pare hanno combinato qualche pasticcio con l’ambasciata perchè dopo poche ore l’hanno rimandato in Italia, a Ponte Galeria, dicendo che non era cittadino bosniaco! […]
Noi zingari in questo siamo speciali, perchè prendiamo queste cose come un destino . e contro il destino non puoi combattere, l’unica cosa è accettarlo e prendere da ogni evento, da ogni luogo, quel poco di buono che ti può insegnare. So di essere fortunato ad avere questo carattere e questa storia. ma se penso a molti ragazzi, venuti per esempio dall’Africa, che si sono venduti le quattro cose che avevano per poter andare in quello che ritenevano un Paese civile, per costruire qualcosa. Dopo un paio d’anni devono tornare a casa senza un soldo, senza neanche i vestiti addosso, umiliati, senza il coraggio di presentarsi davanti alla propria famiglia. E’ per questo che alcuni immigrati di Ponte Galeria avevano le braccia fasciate, perchè si ferivano intenzionalmente con i vetri delle bottiglie, come estremo gesto di autolesionismo e disperazione.
Una volta uscito dal campo, scaduti i trenta giorni massimi di detenzione, sono tornato alle ambasciate jugoslave “Nons ei dei nostri – mi ripetevano tutti – non sei iscritto nel registro dei cittadini!” allora mi sono impuntato “Se è così scrivetemelo nero su bianco, metteteci un timbro e facciamola finita!”. Così, con questi documenti, sono andato al tribunale di Civitavecchia e ho presentato un ricorso scritto di mio pugno: “Sentite – ho detto – io sono un signor nessuno, sono un fantasma che vive da 22 anni in Italia. Mi volete mettere in regola o no?”. All’inizio pensavano che scherzassi, ma poi hanno capito che facevo sul serio e nel giro di poco tempo mi hanno dato lo status di apolide. Allora sono andato al comune di Anguillara dove risiedevo: ho dovuto raccontare all’impiegata la storia della mia vita, ma tre giorni dopo mi hanno convocato per darmi la carta d’identità. Quando ho preso questo pezzo di carta, me lo sono guardato, me lo sono rigirato tra le mani e ho pensato: “tutto qua? e ora che diavolo devo farci con questa?”
la mia storia di Toni è probabilmente una storia atipica, estrema, quella di un immigrato che nessuno voleva e che quindi nessuno ha potuto espatriare. Una delle poche storie di Ponte galeria conclusesi con un lieto fine. Dopo neppure una settimana dal mio rilascio ho partecipato a una manifestazione di protesta, davanti a Ponte Galeria. Poi mi sono iscritto a un partito politico, ma anche lì, dopo un pò, preferisco non andare nei particolari. “non so, per noi zingari queste cose non funzionano mai in questo paese”. Ora lavoro come mediatore culturale presso le scuole che frequentano i bambini rom. L’attività in cui però metto più passione è quella di attore in compagnia teatrale autodidatta. I monologhi in cui racconto la mia storia, delle mie origini, di questo groviglio di nazionalità che la vostra burocrazia ha deciso di chiamare “apolidia”, sono i momenti più applauditi.
Nota: lo status di apolide è regolato dalla legge e viene concesso nei casi in cui una persona abbia perso la sua cittadinanzadi origine, senza poterne acquisire una nuova; è una procedura molto difficile da ottenere, spesso perchè l’ambasciata del paese di nascita non riconosce la persona come proprio cittadino, ma non rilascia un documento scritto di diniego, necessario per l’Italia ai fini del riconoscimento delllo status di apolide. In molto casi si ricorre quindi al giudizio in tribunale.
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