Archive for the 'cittadinanza' Category



Rosarno 1980, l’omicidio di Peppe Valarioti

E’ la notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, Giuseppe Valarioti, giovane professore di lettere con la passione per l’archeologia e la tessera del Pci di Rosarno in tasca (è il segretario di sezione) è al ristorante con i compagni: il partito ha vinto le amministrative e c’è da festeggiare. Finita la cena esce dal locale, arriva una pioggia di fuoco: Peppe Valarioti muore tra le braccia del suo compagno (e padre politico) Peppino Lavorato. E’ la conclusione drammatica di settimane ad alta tensione, di minacce e intimidazioni, miste ad entusiasmo e, a volte, incoscienza. Si va avanti, anche se di notte gli ‘ndranghetisti tentano di incendiare la sezione del partito e distruggono le auto dei militanti. Anche se i manifesti elettorali vengono capovolti. Non strappati o coperti, capovolti. Non è la stessa cosa. Il Pci para i colpi: comizi e manifestazioni, volantinaggi e porta a porta. Dopo la batosta del 1979 il Pci non si può permettere di perdere ancora. Le cosche però non possono accettare che si parli apertamente dei loro traffici e affari. Peppe e Peppino, i compagni della sezione lo sanno e vanno avanti: condannano i tentativi della mafia di controllare le cooperative agricole, difendono il territorio dalla ‘ndrangheta, dalla speculazione edilizia e dalle infiltrazioni. Peppe è un passo avanti agli altri e non smorza i toni nonostante i compagni di partito, i parenti, la fidanzata gli chiedano prudenza. Lui ascolta ma va avanti e organizza un comizio contro gli ‘ndranghetisti, nella piazza principale di Rosarno, proprio il giorno in cui si svolgono i funerali della madre del boss Giuseppe Pesce. Da una parte Peppe e i suoi, dall’altra il boss e i suoi uomini: in mezzo la gente di Rosarno. Un affronto mai visto, a pochissimi giorni dalle elezioni. La sfida finale. Vince il Pci, gli uomini dei clan non vengono eletti. La ‘ndrangheta reagisce e lo uccide. Durante la festa, perché sia chiaro per tutti. Peppino Lavorato terrà aperta la sezione del Pci di Rosarno. E dieci anni dopo diventerà sindaco del paese. Nel nome di Valarioti. Che non ha avuto giustizia.

da. Il manifesto e Unical.

LAVORATO: ROSARNO, BATTAGLIA PER LIBERARCI DALLA MAFIA

di Giuseppe Lavorato

Da molti anni i cittadini rosarnesi soffrono sulla propria pelle la presenza violenta e sanguinaria della ’ndrangheta. I numerosi omicidi, i ferimenti, le prepotenze, le estorsioni sono l’opera criminale e funesta della ‘ndrangheta . Da quindici, venti anni queste violenze si abbattono in forme ancora più gravi sugli ultimi arrivati, le donne e gli uomini scappati dai loro paesi per sfuggire alla fame, alle guerre, alle torture di regimi corrotti e liberticidi : i migranti. Sono in grandissima parte giovani che, per salari di fame offrono le loro braccia, i loro saperi, la loro generosità alle persone in difficoltà, alla vita cittadina ed alla sua economia. In particolare all’economia agrumicola, che fino agli anni ’60 dava redditi decorosi ai piccoli e medi proprietari che sono i soggetti sociali prevalenti sul territorio.

Nei primi anni ’70 iniziò il cambiamento ed il decadimento economico per concomitanti fattori. La caduta del prezzo del prodotto per l’ingresso nel mercato europeo di arance di altre nazioni del bacino del Mediterraneo ; le politiche governative ed europee che, invece di aiutare i contadini a trasformare e migliorare il prodotto, produssero meccanismi perversi che incentivarono le truffe; e, soprattutto, l’allontanamento violento di quei corretti commercianti che ad ogni inizio di annata agrumaria arrivavano nelle campagne e compravano gli agrumi a prezzo di mercato, conveniente e remunerativo per gli agricoltori. Con intimidazioni e minacce, li allontanò la ‘ndrangheta per rimanere unica acquirente ed imporre un prezzo sempre più basso al produttore. E nel corso degli anni si è impossessata di tutta la filiera agricola. Dalle campagne , ai trasporti, alla mercati. Impone il prezzo basso ai coltivatori, il sottosalario ai braccianti, il prezzo alto ai consumatori: deruba tutti.

Questi introiti si aggiungono agli altri molto più ricchi e vantagiosi : traffico delle droghe, delle armi, attività industriali e commerciali, appalti e cantieri pubblici , estorsioni, etc. Essa sa che per continuare ad arricchirsi deve mantenere integro il suo imperio su tutto il territorio, imponendolo con la violenza, il terrore ed il silenzio impaurito dei colpiti.

L’anno scorso questa trama è stata spezzata. L’hanno spezzata i più poveri, i migranti africani. Quando due giovani furono feriti da colpi di pistola, i neri in massa si sono recati a denunciare e collaborare con le forze dell’ordine, determinando il conseguente arresto dei presunti colpevoli. Un episodio esemplare per quanti vogliono seriamente liberarsi dall’oppressione mafiosa. Così fu interpretato da quanti proponemmo alla Commissione Straordinaria che amministra il comune di attribuire il ‘Premio Giuseppe Valarioti’ ai migranti africani ed Antonello Mangano che volle dare al suo libro il titolo : ‘Gli Africani salveranno Rosarno’ E così lo intese anche la ‘ndrangheta : un esempio pericoloso per il suo controllo del territorio. Le persone vessate se si uniscono possono battere i prepotenti ed i violenti. La ‘ndrangheta non ha digerito l’episodio, l’ha messo nella sua memoria ed ha utilizzato l’occasione opportuna per vendicare la sconfitta dell’anno scorso, per chiudere e vincere la partita, così dimostrando a tutti che nessuno può opporsi ad essa, senza subire violenta rappresaglia. Ecco i fatti come emergono dai resoconti giornalistici. Giovedì due neri colpiti con arma da fuoco nei pressi di due diversi luoghi ad altissima concentrazione di migranti e , come ha scritto qualche giornale anche beffeggiati. La contemporanea diffusione della falsa notizia che erano stati uccisi altri quattro ( ne parla il funzionario di polizia Enzo Letizia su l’Unità di domenica 10 gennaio) ha scatenato la violenta reazione che ha danneggiato e terrorizzato soprattutto persone pulite ed oneste, che spesso hanno partecipato anche alla costruzione di momenti e fatti di solidarietà , accoglienza, integrazione con i migranti. Ciò ha permesso a gruppi di delinquenti di inserirsi nella protesta della popolazione onesta danneggiata ed impaurita, per strumentalizzarla ed aprire la caccia violenta ai neri e la cacciata dei neri africani. Fatto altamente significativo: non di tutti i migranti, ma solo dei neri , quelli che alla ‘ndrangheta si sono ribellati. Bisogna lavorare affinché i gravissimi criminali episodi di rappresaglia sui più poveri ed umili della terra che hanno indignato l’Italia ed il mondo civile, aprano gli occhi anche ai cittadini onesti di Rosarno che sono la stragrande maggioranza della popolazione. Per raggiungere questo risultato non bisogna nascondersi dietro un dito.

La rappresaglia e la cacciata dei migranti neri hanno macchiato pesantemente l’immagine del paese ed aperto una ferita profonda e dolorosissima

Per molti anni, senza alcuno aiuto dei governanti nazionali e regionali, generosi cittadini, associazioni di volontariato, comunità religiose, amministratori si sono fatti carico di tenere presenti e vivi , nella difficile e degradata e pericolosa situazione del paese,i sentimenti della umana fratellanza fra comunità di diversa condizione, storia e cultura. Un lavoro che sembra essersi disperso, con il pericolo di un gravissimo arretramento culturale e civile. Rinverdendo una grande, nobile storia di lotte sociali e civili e di solidarietà umana, oggi le donne e gli uomini puliti e generosi che a Rosarno sono presenti e vitali, qualunque sia il loro pensiero politico, devono caricarsi del gravoso compito di risanare la ferita ed il rapporto con i migranti e combattere assieme a loro la battaglia per liberare tutta la popolazione dalla violenza mafiosa.

Giuseppe Lavorato Già sindaco di Rosarno

LA MIA STORIA DA CLANDESTINO di Antun Blazevic

Tratto dal libro “Oltre la rete”, a cura di Serenella Pesarin (Direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari presso il Dipartimento di Giustizia Minorile) e Raffaele Bracalenti, psicoanalista, presidente dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali , Edizioni Edup, marzo 2009

Questa è la mia storia, ho 47 anni, sono venuto in Italia 28 anni fa come clandestino. Uno straniero, una persona non di cittadinanza italiana. Se però provate a chiedermi di quale Paese sono originario, a quale nazionalità appartengo, vi risponderò che è troppo difficile per me poter dire: “Io sono croato, sebo o macedone”. E’ una storia complicata, una storia che accomuna tutti coloro che vengono dalla ex-Jugoslavia e, in particolare, gli zingari. Mia madre è una gagè (una ‘non-zingara’), una bosniaca cattolica, mentre mio padre è uno zingaro di religione ortodossa. I miei nonni materni sono uno zingaro e una bosniaca musulmana, quelli paterni un ortodosso e una cattolica. A ripercorrere tutto il mio albero genealogico, si rischia di perdersi. E io chi sono? Io sono solo un mezzo zingaro, un meticcio, un miscuglio, sono come il ‘pesto’. Da ragazzo ho vissuto in Slovenia, vicino Vinkovci, nella casa dei nonni: adesso è territorio serbo, ma quando ci abitavo io era zona croata, e ho avuto anche modo di giraare un pò per il paese; poi la decisione di andare in Italia in cerca di fortuna. Era il 17 gennaio 1980: un giorno dopo il mio diciannovesimo compleanno. Un bel modo di festeggiare! Non sono venuto con una carretta del mare: ho attraversato la frontiera a piedi, attraverso i boschi. Da Capo d’Istria ho raggiunto Trieste e da lì, in treno, sono arrivato a Roma. Per quasi sette mesi ho dormito nei treni o nelle stazioni della metropolitana, quasi sempre da solo, senza alcun punto di riferimento nella città. L’inserimento è stato molto lento e faticoso, finchè non ho iniziato a lavorare come restauratore di mobili presso un vecchio artigiano dei Parioli, che però morì solo qualche mese dopo. Per alcuni anni ho continuato a tirare avanti tra un lavoretto e l’altro. Non rubavo all’inizio, ma poi, quando non hai la possibilità di lavorare, di sopravvivere, non hai niente..devi per forza cominciare, e sono stato anche incarcerato. All’inizio degli anni Novanta sono rientrato in Jugoslavia per i fatti della guerra. Da che parte? Non importa più ormai, è storia passata. Comunque, mi sono fatto cinque anni di guerra. Poi, quando ho capito che ra una guerra inutile, che si moriva solo per avere due o tre metri quadrati di terra in più, che tutto sarebbe rimasto come prima, ho deciso di tornare in Italia. Così ho ripreso quella vita di espedienti e piccoli lavoretti.

Poi ho cominciato a stringere i rapporti con gli zingari di Roma e nona vendo la casa avevo deciso di trasferirmi nel campo Casilino 700. “Mi sono subito reso contyo dlele condizioni in cui vivono gli zingari in Italia e ho detto ragazzi svegliamoci, non si può viver così, dobbiamo fare qualcosa!”. Così ho iniziato a impegnarmi nell’associazionismo: facevo parte della A.R.G. ( Amicizia tra Rom e Gagé) ma non avevamo una sede ed era difficili trovare appoggi per le nostre iniziative. Comunque facevamo quel che potevamo, e per un bel pò ho tirato avanti. Finchè un bel giorno, nel 2000, mi hanno preso e mi hanno portato al Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria vicino Roma. Ricordo un impiegato che mi diceva: “Tu devi essere espulso, devi andare via, devi tornare al tuo Paese!” e io: “Scusa, se mi sai dire qual’è il mio paese, io ci torno volentieri!”. Il mio Paese, in realtà, non esiste più: prima si chiamava Jugoslavia, ora si chiama Croazia, Macedoonia, Montenegro…

E’ difficile dirlo esattamente quante persone eravamo all’interno del campo. C’era un continuo via vai; in media direi circa 80-90 persone, quando più, quando meno. Gli uomini dormivano da una parte, le donne e i bambini dall’altra. All’internod el centro operavano diversi corpi dello Stato: Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, e a fianco delle forze dell’ordine operava anche un gruppo di volontari della Croce Rossa Italiana. Proprio tra questi volontari ho conosciuto quella che sarebbe diventata la mia compagna. Le giornate nel centro trascorrevano senza uno scopo apparente. Ogni tanto, due o tre immigrati, quelli dalla situazione giuridica più complessa, venivano portati presso diverse ambasciate, per capire in quale paese avrebbero dovuto essere rimpatriati. Io, lo zingaro jugoslavo, dovevo peregrinare per tutte le sedi diplomatiche dei paesi balcanici: Macedonia, Croazia, Bosnia, Romania..Da ogni parte dicevano: ” No, questo non è nostro, non possiamo riprendercelo noi!”. Un girono, per sbaglio, mi hanno portato pure in quella di Algeria, insieme ad un ragazzo nordafricano! Al campo ho conosciuto anche un mio compaesano, trasportatod a Rimini a Ponte Galeria, per essere espatriato. Dopo qualche giorno, viene messo sull’aereo  e portato a Sarajevo. A quanto pare hanno combinato qualche pasticcio con l’ambasciata perchè dopo poche ore l’hanno rimandato in Italia, a Ponte Galeria, dicendo che non era cittadino bosniaco!  […]

Noi zingari in questo siamo speciali, perchè prendiamo queste cose come un destino . e contro il destino non puoi combattere, l’unica cosa è accettarlo e prendere da ogni evento, da ogni luogo, quel poco di buono che ti può insegnare. So di essere fortunato ad avere questo carattere e questa storia. ma se penso a molti ragazzi, venuti per esempio dall’Africa, che si sono venduti le quattro cose che avevano per poter andare in quello che ritenevano un Paese civile, per costruire qualcosa. Dopo un paio d’anni devono tornare a casa senza un soldo, senza neanche i vestiti addosso, umiliati, senza il coraggio di presentarsi davanti alla propria famiglia. E’ per questo che alcuni immigrati di Ponte Galeria avevano le braccia fasciate, perchè si ferivano intenzionalmente con i vetri delle bottiglie, come estremo gesto di autolesionismo e disperazione.

Una volta uscito dal campo, scaduti i trenta giorni massimi di detenzione, sono tornato alle ambasciate jugoslave “Nons ei dei nostri – mi ripetevano tutti – non sei iscritto nel registro dei cittadini!” allora mi sono impuntato “Se è così scrivetemelo nero su bianco, metteteci un timbro e facciamola finita!”. Così, con questi documenti, sono andato al tribunale di Civitavecchia e ho presentato un ricorso scritto di mio pugno: “Sentite – ho detto – io sono un signor nessuno, sono un fantasma che vive da 22 anni in Italia. Mi volete mettere in regola o no?”. All’inizio pensavano che scherzassi, ma poi hanno capito che facevo sul serio e nel giro di poco tempo mi hanno dato lo status di apolide. Allora sono andato al comune di Anguillara dove risiedevo: ho dovuto raccontare all’impiegata la storia della mia vita, ma tre giorni dopo mi hanno convocato per darmi la carta d’identità. Quando ho preso questo pezzo di carta, me lo sono guardato, me lo sono rigirato tra le mani e ho pensato: “tutto qua? e ora che diavolo devo farci con questa?”

la mia storia di Toni è probabilmente una storia atipica, estrema, quella di un immigrato che nessuno voleva e che quindi nessuno ha potuto espatriare. Una delle poche storie di Ponte galeria conclusesi con un lieto fine. Dopo neppure una settimana dal mio rilascio ho partecipato a una manifestazione di protesta, davanti a Ponte Galeria. Poi mi sono iscritto a un partito politico, ma anche lì, dopo un pò, preferisco non andare nei particolari. “non so, per noi zingari queste cose non funzionano mai in questo paese”. Ora lavoro come mediatore culturale presso le scuole che frequentano i bambini rom. L’attività in cui però metto più passione è quella di attore in compagnia teatrale autodidatta. I monologhi in cui racconto la mia storia, delle mie origini, di questo groviglio di nazionalità che la vostra burocrazia ha deciso di chiamare “apolidia”, sono i momenti più applauditi.

 

Nota: lo status di apolide è regolato dalla legge e viene concesso nei casi in cui una persona abbia perso la sua cittadinanzadi origine, senza poterne acquisire una nuova; è una procedura molto difficile da ottenere, spesso perchè l’ambasciata del paese di nascita non riconosce la persona come proprio cittadino, ma non rilascia un documento scritto di diniego, necessario per l’Italia ai fini  del riconoscimento delllo status di apolide. In molto casi si ricorre quindi al giudizio in tribunale.


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